Rikard Sjoblom (Beardfish)

Rikard Sjoblom (Beardfish)
“La luce sul Prog non si è mai spenta, è stata solo offuscata in attesa di nuova energia dal risveglio delle coscienze....”. (Mauro Pini)

lunedì 5 giugno 2023

Giant the Vine: A Chair at the Backdoor

La band genovese dei Giant the Vine, dopo lo splendido esordio, di cui parlammo anche su questo  blog http://progressivedelnuovomillennio.blogspot.com/search?q=giant+the+vine, ha recentemente pubblicato il secondo album " A Chair at the Backdoor" per la label indipendente Luminol Records http://www.luminolrecords.com


Abbiamo posto al compositore/chitarrista Fabio Vrenna, che ringraziamo di cuore e psiche, alcune domande relative alla band e al nuovo disco, ecco cosa ci ha gentilmente risposto.

Fabio, puoi raccontarci , in sintesi,  la storia del gruppo per chi ancora non vi conosce?

Arriviamo tutti da esperienze precedenti, ovviamente, ci siamo conosciuti grazie ad alcune inserzioni e abbiamo condiviso, fin dall’inizio, l’intenzione di registrare e pubblicare un album con i 12 brani già imbastiti dal sottoscritto. All’inizio eravamo tre estranei accomunati soltanto da gusti musicali simili e dalla voglia di fare musica originale, strumentale.
Quando siamo entrati in studio per registrare Music for Empty Places eravamo ancora in 3: oltre a me c’erano Fulvio Solari (chitarrista anche lui) e Daniele Riotti (batteria), mentre Antonio Lo Piparo è arrivato solo dopo l’uscita del disco. 
Music for Empty Places (Lizard Records 2019) ha ottenuto una buona risposta dalla critica, che ci ha incoraggiato a proseguire, ma non abbiamo avuto la possibilità di promuoverlo come avremmo voluto perché nel giro di pochi mesi ci siamo ritrovati chiusi in casa, impossibilitati a suonare insieme o dal vivo, e così abbiamo cominciato ad abbozzare alcune idee per il secondo album.

Nel 2023 , dopo quattro anni di attesa, ecco il secondo full length “A Chair at the Backdoor”, ci narri la genesi del nuovo disco?

A Chair at the Backdoor nasce dalla volontà di dare un seguito a Music for Empty Places senza incorrere negli stessi errori. Volevamo fare un disco suonato e suonabile, cosa che in alcuni brani del primo album risultava difficile, volevamo arrivare in studio con un arrangiamento definito, senza incertezze o invenzioni dell’ultimo momento.
Abbiamo realizzato una pre-produzione registrata live in studio e l’abbiamo sottoposta a più etichette. Luminol Records si è fatta avanti mentre Lizard Records si è tirata indietro e questo ci ha fatto capire che stavamo cambiando direzione.
Anche per A Chair at the Backdoor abbiamo preparato e registrato più brani di quanti non ne siano stati inseriti nel disco; La scelta finale è caduta su quelli che contribuivano a dare omogeneità al lavoro.

Grande cura compositiva, affiatamento tra i musicisti, impronta sonora che lascia il segno sulla sabbia del post rock progressivo del nuovo millennio, in una sorta di guida musicale all’album proviamo a farlo brano per brano, ti chiedo di descrivere sinteticamente la cifra stilistica di ogni singola traccia e il messaggio emozionale ad esso associato in una sorta di guida all’ascolto…


Protect Us from the Truth
“parla” della necessità di aggrapparsi a qualcosa e mettere la testa sotto sabbia per non guardare in faccia la verità. In questo brano alcuni riferimenti ai Genesis di The Lamb Lies Down on Broadway sono abbastanza evidenti.

Glass è una dei 12 brani preparati per Music for Empty Places, nonostante sia un pezzo semplice, non eravamo riusciti a farla suonare come avremmo voluto e fa riferimento alla fragilità di alcune certezze.

The Potter’s Field è nata durante il lockdown, quando arrivavano le immagini di Hart Island e del campo del vasaio. E’ una canzone tetra, sulla morte dei non amati, rappresentata molto bene da Inès Lendinez, sulla cover del disco, mediante un cuore nero appeso a una catena.

Jellyfish Bowl rappresenta il vuoto a cui rivolgiamo lo sguardo decine di volte, nel corso della giornata in cerca di distrazione. Musicalmente parlando, l’intenzione iniziale era quella di trasmettere l’emozione che proviamo ascoltando alcuni brani di Sakamoto o Morricone. Non siamo riusciti nel nostro intento, ma è venuto un bel pezzo lo stesso.

The Heresiarch e Inner Circle nascono come un unico brano riferito ai padri di alcune eresie, come Dolcino o Marcione, e alla loro fine. Il brano che chiude e dà il titolo all’album è stato un vero parto, abbiamo impiegato mesi, se non anni, per arrivare alla forma definitiva. Il titolo è tratto dal primo verso di Myrrhman dei Talk Talk. Questa immagine evoca pensieri diversi: la paura che qualcuno possa entrare dalla porta sul retro, la confidenza di chi usa l’ingresso secondario o il far entrare un ospite dal retro per non farlo notare.

Nel presentare questo disco avete scritto che ha “un nuovo sound, più maturo e consapevole, in cui la poliedricità di Steven Wilson sembra incontrare la profondità di Thom Yorke e Mogwai”,  puoi approfondire questo concetto?

Con il dovuto rispetto per Wilson e Yorke, forse possiamo dire che il primo ha scritto dei capolavori nell’ambito di un genere perfettamente definito. Yorke ha scritto dei capolavori senza preoccuparsi di dove andassero collocati. I Giant the Vine partono dal Progressive Rock, ma ambiscono a svincolarsi da certi stilemi che lo caratterizzano da oltre 50 anni.

Il precedente album ricevette numerosi lodi a livello di critica musicale, credi che il nuovo lavoro, che personalmente trovo ottimo, possa ricevere altrettanti attestati di stima?

Beh lo spero, lo speriamo tutti e 4, certamente. Questa volta, però, ci piacerebbe avere anche la possibilità di farlo conoscere, di farlo ascoltare, e di suonarlo il più possibile.

Quanto è differente “raccontare una storia” attraverso un brano totalmente strumentale rispetto a composizioni che hanno testo e musica?

Per certi aspetti è più facile, perché un brano strumentale consente una narrazione più snella e più simile a un’immagine. L’ascolto di The Potter’s Field non può, di per sè, evocare il cimitero di Hart Island, ma la combinazione tra la musica e il titolo, e il ricordo delle immagini che arrivavano dagli USA durante il lockdown, danno un’idea del nostro stato d’animo di quel periodo.

Nel frattempo c’è stato un cambio di etichetta, siete passati da Lizard Records a Luminol Records, puoi spiegarci questo avvicendamento?

Non è stata una nostra scelta. Lizard non era interessata al nostro secondo album mentre Luminol lo era. A ben guardare, questo ha corrisposto a una evoluzione nel nostro modo di comporre. Abbiamo preso le distanze da certo Prog degli anni 70 per avvicinarci a (certo) post rock. Non arriviamo ai brani monolitici dei Mogway o We Lost the Sea, ma non facciamo neppure i soli di moog.

Cosa si prova a suonare con i Giant the Vine e soprattutto con la propria figlia Ilaria?

Suonare con Ilaria è sicuramente una grande soddisfazione come padre, ma anche come musicista perchè è molto dotata e, col suo tocco, riesce ad aggiungere alle parti di piano quella espressività che, durante la stesura dei brani, è totalmente assente nelle mie bozze. Fino ad oggi, è sempre stata disponibile ad aiutarci per registrazioni o riprese video ma, purtroppo, da qualche tempo si è trasferita in Irlanda ed è più difficile averla con noi.
Suonare con i Giant è una bellissima avventura, cominciata proprio quando credevo che sarei stato costretto a smettere di suonare.

Ti propongo un gioco, usa una metafora o solamente un aggettivo per descrivere ogni componente della band…

Difficile. Siamo 4 nerd che parlano solo di musica.

Altro momento ludico, se ti proponessero di suonare con un musicista attualmente in attività chi sceglieresti e come mai?

Nessun dubbio: Richard Barbieri !



Il futuro cosa riserva ai Giant the Vine?

Il bello di non essere professionisti consiste nella libertà di poter comporre e proporre quello che ci sentiamo di fare. Le nostre scelte artistiche non cambieranno le nostre vite. 
I consensi che riceviamo ci danno conferma del fatto che esiste anche un pubblico che ha voglia di ascoltare musica non condizionata dal denaro o dai grandi numeri, quindi continueremo a fare quello che ci piace, e a cambiare il modo di farlo, fino a quando non saremo disgustosamente ricchi…

In ascolto e in visione la seconda traccia Glass




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