Rikard Sjoblom (Beardfish)

Rikard Sjoblom (Beardfish)
“La luce sul Prog non si è mai spenta, è stata solo offuscata in attesa di nuova energia dal risveglio delle coscienze....”. (Mauro Pini)

martedì 5 novembre 2019

Antonio Papagni “Dai Led Zeppelin allo Zen”

Non è mia prassi, su questo blog, analizzare libri, ma il saggio che ho recentemente letto merita un approfondimento seppur non sia a contenuto progressive e riguardi lo scorso millennio.

Antonio Papagni “Dai Led Zeppelin allo Zen”


Antonio Papagni, romano classe 1956, attualmente cittadino di un borgo nelle adiacenze del lago di Vico (m.507) in provincia di Viterbo, lago - d’origine vulcanica - ricordato nel mondo musicale come  titolo del terzo e ultimo disco (1979) del duo Francesco “Checco” Loy e Massimo Altomare.

Il Papagni è l’autore di un saggio di 263 pagine, con le esaurienti note e tutto il resto si arriva a 325. “Dai Led Zeppelin allo Zen” (CartaCanta editore) questo il seduttivo titolo di un lavoro che ci accompagna - con puntualità- in un percorso di analisi antropomorfica dal 1972 al 1990. Oculata divisione, anno dopo anno, per un diario appassionante che ci riporta a essi come se il libro diventasse una macchina del tempo e producesse come memorandum degli “scripta manent” per fissare i ricordi. Un’opera in cui ci si potrebbe perdere dato il considerevole numero di citazioni discografiche, librarie e filmiche, ma Antonio ci conduce con guida esperta e non si ha timore di smarrirsi o deviare il cammino.  
Lo scrittore romano, da buon padre di famiglia, osserva e rimprovera (quando si sbaglia) o si felicita (quando si fa bene) in un’essenzialità che è nota di merito sulla naturalezza della pubblicazione. Partendo dal folgorante imprinting del secondo disco dei Led Zeppelin, l’autore è molto sincero e non le manda a dire, ecco alcuni esempi: il vate Hemingway criticato per il suo Il vecchio e il mare (1952) “scritto in un’artificiosa prosa biblica con i dialoghi che oscillavano tra il maestoso e il pittoresco”, d’altra parte “i maestri si possono anche non amare fino in fondo”.
 I Rolling Stones nel 1974 diventati “solo l’ombra di se stessi, fenomeno di massa volgarizzato e semplificato”. I Pink Floyd nel 1976 “avevano presentato la loro nenia Wish you were here, un tardivo omaggio all’ormai dimenticato Syd Barrett. Solo la chitarra di Gilmour in Shine on you crazy diamond permette di giustificare in parte le 5000 lire spese per il disco”. Sempre nel 1976 il virtuoso chitarrista John Mclaughlin con Inner Worlds “uno dei suoi dischi più brutti…cade nel kitsch e si lascia sedurre anche lui da malsane tentazioni commerciali”. Emerson Lake & Palmer con l’album doppio Work volume 1 (1977) “all’ascolto un lavoro davvero inutile…soldi buttati e tempo perso”. I Tangerine Dream nel 1977 con l’album doppio dal vivo Encore “nessun cambiamento e nessuna innovazione nello stile del trio tedesco”. Nel 1983 Procession dei Weather Report “con l’uscita dal gruppo di Jaco Pastorius, Peter Erskine e Robert Thomas rimaneva solo la nostalgia per atmosfere e suoni lontani”. 
Sul punk, l’autore mette una pietra tombale con l’affermazione “non comprai nessun album perché la semplicità, l’immediatezza, l’odio e le arroganti contraddizioni che sviluppavano questi gruppi erano ben lontane dalla complessa ragionevole concezione di militanza né mi avvicinai neanche per curiosità, ai Queen”. 
Sono compiaciuto quando un saggio parla di altri libri, soprattutto quando cita uno dei preferiti della mia adolescenza: “Per chi suona la campana” di Ernest Hemingway.
 Rielaborando l’imprinting ci si potrebbe chiedere: “Per chi suona il dirigibile?” o citando il Battiato di Pollution: “Ti sei mai chiesto che funzione hai caro libro? “. Una estremamente pregnante, è che si ha voglia di comprare/ascoltare ogni disco segnalato che non si possiede – ad esempio il sottoscritto da musicofilo diversamente giovane ha acquistato due cd di Jon Hassell- tanta è l’enfasi, il trasporto passionale con cui l’autore li descrive, ciò vale anche per i libri. 

Papagni ci offre un viaggio benefico attraverso dischi che già da soli segnano il percorso, l’autore ben delinea le proprietà peculiari, è lodevole -come se si fosse in una pinacoteca- vedere menzionare/fluire le opere d’arte. Leggendo il libro mi è venuta in mente la metafora del cavallo dello psicoterapeuta statunitense Milton H. Erickson (1901-1980) che mi permetto di riassumere in quest’occasione: Tornando a casa incontrai un cavallo, era scappato da chissà dove con le redini sulla groppa. Era mansueto così gli saltai in groppa e, visto che aveva le briglie, presi in mano le redini dicendo:” Hop! Hop!”, indirizzandolo verso la strada. Sapevo che l'animale avrebbe girato nella direzione giusta. Il cavallo si mise a trottare e a galoppare lungo il percorso. Ogni tanto deviava in qualche campo, allora gli davo una scrollatina e richiamavo la sua attenzione e lo facevo rientrare sulla strada, s’infilò infine nel recinto di una fattoria. Il fattore disse: ”dunque è così che è tornato quello scemo. Ma dove l’hai trovato?”, io dissi: ” a circa quattro miglia da qui”. “E come hai fatto a sapere che dovevi venire qua?”. ”Io non lo sapevo”, risposi “lo sapeva il cavallo. Io non ho fatto altro che mantenere la sua attenzione sul percorso”. Il lettore (il cavallo) in genere conosce la direzione in cui vuole dirigersi, tutto quello che deve fare l’autore (il conduttore) è guidarlo in modo intelligente! E così il Papagni ha fatto: “Non si può vedere ciò che non si cerca” come ben ci insegna il cognitivismo, le cose le vedi se hai l’idea che ci siano e il saggio offre molteplici idee.
 Da sottolineare la memoria prodigiosa nel ricordare con esattezza acquisti di dischi e libri associandoli agli avvenimenti che la massa ha frequentato a es. Nove settimane e mezzo film culto degli anni Ottanta, un decennio che- in un universo parallelo- ha prodotto Jon Hassell e David Sylvian, due tra gli artisti preferiti dal Papagni. Tra l’altro con “City: work of fiction” di Jon Hassell del 1990 l’autore pensa che quest’album ci proietti verso una società distopica decretando la fine dell’Utopia del mondo euro-occidentale di attendersi grande musica, pittura e forse letteratura, visione apocalittica che angoscia. 
Altra figura imprescindibile è il leader dei King Crimson, Robert Fripp, il quale -attraverso i suoi seminari di chitarra- si propone “non come maestro ma nello spirito del sensei giapponese come -colui che è andato prima-, felice di condividere ciò che aveva imparato con quelli che desideravano intraprendere un cammino simile”. Della serie: un trip alla ricerca di Fripp! 
Ulteriore personaggio amato da Antonio è il poliedrico Brian Eno. Tra le cose scritte su di lui, mi soffermo sul concetto del non musicista che sarebbe, per Eno, persona incompetente dal punto di vista tecnico ma ricco di genio creativo. Mi domando: “ La musica per non musicisti ha portato alla nascita del punk?” . “Nel punk la tecnica non era importante e i gruppi non sapevano suonare: usavano tre accordi (ndr: anche troppi…) per sfogare la loro rabbia con canzoni che non duravano mai più di tre minuti”. 
Parafrasando Papagni (vedi pag. 187) bisogna prendere atto della pregnanza di ogni percorso, spesso mi son trovato d’accordo con quello che ha analizzato l’autore ma da melomane progressivo diversamente giovane indico come totem/epigono di un’era magica la Locanda delle Fate con “Forse le lucciole non si amano più” , al contrario Papagni afferma che sia  “L’apprendista “ degli Stormy Six “l’ultima gemma di musica progressiva italiana”.  
E’ comunque questione di gusti anche perché il materiale del disco locandiero era di un paio d’anni addietro. 
Stimolante il contraddittorio con ciò che si legge! Ma poi sopraggiunge lo Zen a calmare, Zen come sviluppo di percezione intimo delle cose. Per arrivarci ci vogliono 200 pagine, molti anni e un artista come Jon Hassell con la sua musica che lo avvicina a noi, ” la musica come richiamo, annunciazione, visione” La musica come assenza, vuoto, silenzio interiore” tra l’altro la sua performance al Teatro Olimpico di Roma il 25 novembre 1988 è per Papagni “il più affascinante concerto che abbia mai visto”. Zen intrasportabile giacchè non può migrare dall’estremo oriente perchè è profondamente collegato (come scrive Alan W. Watts nella premessa de “La via dello zen”, libro che va letto con grande apertura mentale) “a istituzioni culturali che ci sono estranee … l’Occidente non è mai preparato ad accogliere il significato impalpabile dello zen” e allora che senso ha il libro? 
L’autore con la nota 248 ci fa comprendere l’idea conclusiva dello scritto ossia che lui sia un militante attivo perché conosce interpreta e critica le opere, un diritto/dovere o dovere/diritto di non rimanere in silenzio in questa realtà di slow food cognitivo. 
Ed è per questo che lo lodiamo e consigliamo senza remore.


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